La gestione pattizia dei beni collettivi e l’adozione di strumenti come i contratti di fiume (CdF) rappresentano oggi in Italia, una concreta alternativa al perdurare del rischio ed all’apparentemente “inevitabile” e progressivo degrado del territorio e dell’ambiente. Rappresentano una spinta dal basso pacifica e democratica, una ri-assunzione di responsabilità collettiva, una forma di democrazia diretta. Il successo dei contratti di fiume risiede, a mio parere, nel fatto che dalle piccole comunità locali fino al Governo Nazionale, si sta ormai facendo strada la consapevolezza che per trovare nuovi modelli di gestione servono nuovi strumenti governance. La gestione dell’emergenza, certamente aggravata dai cambiamenti climatici, è necessaria per tutelare vite e beni esposti al rischio, come i drammatici eventi che hanno colpito l’Italia in questi giorni dimostrano, ma altrettanto importante è la parallela costruzione di percorsi di prevenzione, di cambiamento reale, che ci consentano di ridurre e progressivamente uscire proprio da quel rischio. Una rinascita potrà avvenire solo se saremo in grado di ricercare nuovi valori collettivi, reagendo a quella sorta di “blackout della ragione”, verificatosi in poco meno di un secolo, all’interno della nostra società. Non è sufficiente costruire nuovi depuratori efficienti in una città, se le aree residenziali ed i distretti industriali a monte dello stesso fiume continuano a sverzare grandi quantità di inquinanti, se l’agricoltura non riduce l’uso di fertilizzanti chimici, se non si da il giusto valore alla continuità degli ecosistemi ed al loro ruolo depurativo naturale. Non sarà risolutivo nemmeno realizzare imponenti e costose opere strutturali di difesa dalle acque se contemporaneamente non si ferma il consumo di suolo, se non prevale il principio dell’invarianza idraulica nelle aree urbane, se non si restituiscono le funzioni di micro-laminazione idraulica all’agricoltura, se non si opera una manutenzione continuativa della rete idraulica minore. E’ ormai chiaro a tutti che il livello di complessità delle questioni in gioco richiede che le problematiche che riguardano i fiumi e più in generale l’acqua siano trattate in termini sistemici attraverso il superamento delle soluzioni parziali che non considerano le interazioni, che non legano la gestione della risorsa idrica, alla difesa del suolo, degli ecosistemi, alla tutela del paesaggio. L’attenzione si sposta alle trame verdi e blu del territorio, fiumi e spazi aperti, che costituiscono la struttura sulla quale riorganizzare le città ed i loro servizi. Questa unità di governo può favorire, la concentrazione e l’efficientamento delle risorse economiche su problematiche condivise. Poiché “non vi sono poteri competitivi, quando vi sono obiettivi comuni” come ci ha ricordato recentemente il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri Graziano Del Rio. Non ci sono, in questo senso, interpretazioni e poteri contrastanti che non possano trovare conciliazione in nome dei valori comuni reperibili nel patrimonio identitario, paesaggistico e culturale dei nostri territori. I contratti di fiumestanno dimostrando di essere uno strumento efficace, in grado di agire sulla costruzione di azioni e strategie per la conservazione di beni collettivi, stimolando la progettualità condivisa e mantenendo la coerenza tra le azioni che vengono realizzate e l’orizzonte strategico che le ha determinate. Parlo di beni collettivi e non pubblici, poiché la gestione dei beni collettivi si basa sull’assunzione di una responsabilità collettiva che non necessita di una intermediazione burocratico-coercitiva. I CdF, ben definiti dall’emendamento al Collegato Ambientale alla Legge di stabilità approvato alla Camera dei Deputati ed ora in discussione al Senato, “come strumenti volontari di programmazione strategica”, trovano la loro forza proprio in quel carattere di volontarietà che potrebbe essere apparentemente scambiato per un elemento di debolezza. Non vogliamo avviare una nuova stagione di politiche vincolistiche “ …pur con finalità ecologiche” vogliamo innalzare il senso di responsabilità delle persone e delle comunità. I Contratti di fiumesono e devono restare uno strumento volontario. E’ per questo che in tutta Italia agricoltori, associazioni industriali, associazioni ambientaliste e professionali, comunità locali, parchi e consorzi di comuni promuovono dal “basso” i Contratti di Fiume. Anche il Tavolo Nazionale nella sua azione di supporto alla qualità dei processi, avviata di concerto con il Ministero dell’Ambiente ed ISPRA, non intende costruire linee guida che riducano i Contratti di fiumead una mera “liturgia”, ma bensì si intende unicamente armonizzare e rendere sempre più efficiente il loro utilizzo. La struttura di diffusione dei contratti di fiumeappare oggi molto chiara, pur nascendo spesso da un disagio, dall’evidenza di fenomeni di degrado o dall’aver subito eventi catastrofici il contratto diviene il veicolo per trasformare la protesta in proposta, il conflitto in ricerca di soluzioni. Una volta appoggiata la pala dopo l’ennesima alluvione ci si ferma e si pensa a quale soluzioni si possono adottare perché ciò non continui ad avvenire. I processi partecipativi generano contratti, i contratti generano progetti ed i progetti generano azioni ed interventi. Un processo di democrazia diretta deve sempre avere un esito deliberativo (ci dice Norberto Bobbio) un esito che si concretizzi nell’efficacia delle decisioni prese. La partecipazione è solo apparentemente una strada decisionale con iter più lunghi rispetto ad altre forme di decisone, come dimostrano gli innumerevoli progetti ed opere pubbliche bloccate anche per 15 o 20 anni, non per eccesso di democrazia ma bensì di burocrazia. I ritardi sono spesso imputabili ad una palese incoerenza tra la struttura giuridico legislativa delle decisioni e l’azione politica che nei territori dovrebbe sostenere gli interventi. Con il Decreto “Sblocca Italia” all’art. 7, si apre una interessante prospettiva, che dovremmo cogliere, di supporto ai processi di governance in materia di risorse idriche, alla lettera “i” comma 2, si parla di “risorse prioritariamente destinate agli interventi integrati…”. Naturalmente nell’attuazione si dovranno superare i localismi e gli interessi singoli e corporativi in una logica di piena concertazione ed in questo senso i CdF potranno dare il loro contributo. Un contributo positivo i CdF potranno darlo anche nell’aggiornamento dei piani di gestione Direttiva 2000/60/CE e rischio 2007/60/CE poiché agendo alla scala di sub-bacino si profilano come una realtà di area vasta di portata intercomunale se non a volte interregionale. Questo ruolo potrà rivelarsi efficace anche nel delicato passaggio tra bacini e distretti idrografici. Immaginiamo un ruolo non marginale anche nella gestione dei Piani di Sviluppo Rurale (PSR) ponendo l’agricoltura al centro di un sistema virtuoso di produzione e difesa del territorio. Ci piacerebbe in questo senso, rafforzare anche una interazione costruttiva, con la “Strategia Nazionale Aree Interne”; deve essere chiaro, che i territori individuati, potranno trovare nei contratti di fiumeun valido partner ed in alcuni casi i contratti potrebbero anche candidarsi a divenire l’asse portante di un programma di sviluppo territoriale legato all’area interna. Vorrei infine parlare del ruolo delle regioni. Nel 2003 in una prima fase di diffusione dei CdF, la regione Lombardia riconosceva i contratti di fiumeprima in Italia, quali strumenti preordinati al Piano di gestione prevedendo “…la concertazione e l’integrazione delle politiche …con la partecipazione di soggetti pubblici e privati.. attraverso strumenti denominati contratti di fiume”. Da allora le regioni che hanno aderito alla Carta Nazionale dei CdF, promulgata a Milano nel 2010 e ratificata a Torino 2011, anche grazie all’impulso dato dalla Regione Piemonte nel suo ruolo di coordinatore della Conferenza delle Regioni e Province autonome, sono arrivate a 7 e altre 6 vi stanno aderendo. Le regioni nella nuova fase di sviluppo dei CdF, diventano sempre più il collante e terminale dei processi, poiché ad essi possono contribuire direttamente attraverso la condivisione di un sistema di obiettivi e la messa a punto di strategie e visioni di lungo termine. Non pensiamo che il cambiamento sarà facile o veloce, non ci illudiamo di poter cambiare l’Italia solo con i Contratti di Fiume, ma gli vogliamo considerare un fattore d’innesco del cambiamento della ricerca di nuovi modelli di vita più sostenibili e di spazi di decisione alternativi. Sarà certamente necessario continuare ad affrontare problematiche complesse e di non facile soluzione, ma come ci ricorda Ulrich Beck, si tratta di fare si che la messa in crisi della nostra razionalità dominante, economica e tecnologica, si possa aprire a spazi di creatività e praticabilità per nuove sfide, “piuttosto che suggerire atteggiamenti fatalistici, cinici o peggio, rinunciatari”. Buon lavoro e buoni contratti di fiume!
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